51° Rapporto Censis: nel nostro Paese torna a crescere l'economia, ma anche il rancore sociale

51° Rapporto Censis: nel nostro Paese torna a crescere l'economia, ma anche il rancore sociale

Il 1° dicembre scorso è stato presentato il 51° Rapporto sulla Situazione Sociale del Paese del Censis, che, come sempre, ci aiuta a comprendere e a leggere i fenomeni socio-economici in corso. Un dato che emerge su tutti nel rapporto di quest'anno è la ripresa economica del nostro Paese: la contrazione dei consumi e degli investimenti ha avuto come effetto propulsore la ripresa della capacità competitiva che si è tradotta in un aumento del fatturato e della produttività in vari settori della nostra industria. Nel primo semestre del 2017 vi è stato un incremento del 2,3% della produzione industriale italiana (rispetto al +2,1% della Germania e della Spagna, al +1,9% del Regno Unito e al +1,3% della Francia). Aumenta anche l'export: la quota dell'Italia sull'export manifatturiero mondiale è oggi del 3,4%. Altro elemento trainante dell'economia è stato il turismo. Nel 2016, rispetto al 2008 si è registrato un incremento degli arrivi del 22,4% e dei pernottamenti del 7,8%. Cresce la componente straniera dei flussi turistici e aumenta il numero degli esercizi extralberghieri.
Si tratta, tuttavia, e questo è l'aspetto contradditorio, di uno sviluppo senza espansione economica. La ripresa registrata in questi ultimi mesi sembra indicare, più che l'avvio di un nuovo ciclo di sviluppo, il completamento del precedente.
Tra il 2013 e il 2016 la spesa per i consumi delle famiglie è cresciuta complessivamente di 42,4 miliardi di euro (+4%). Nell'ultimo anno gli italiani hanno speso 80 miliardi di euro per la ristorazione (+5% nel biennio 2014-2016), 29 miliardi per la cultura e il tempo libero (+3,8%), 25,1 miliardi per la cura e il benessere, 25 miliardi per alberghi (+7,2%), 6,4 miliardi per pacchetti vacanze (+10,2%). Questa cosidetta felicità soggettiva quotidiana viene però pagata principalmente attraverso il low cost e il cash del neo-sommerso: nell'ultimo anno 28,5 milioni di italiani hanno acquistato in nero almeno un servizio o un prodotto.
D'altra parte però, la povertà in Italia continua ad essere un problema ancora molto attuale. Sono oltre 1,6 milioni, pari al 6,3% del totale, le famiglie che nel 2016 sono in condizioni di povertà assoluta, valore che è quasi raddoppiato (+96,7%) rispetto al 2009 prima della pre-crisi, in cui le famiglie povere erano 823 mila. Gli individui in povertà assoluta sono 4,7 milioni, con un incremento del 165% rispetto al 2007. Tali dinamiche hanno coinvolto tutte le aree geografiche, con un'intensità maggiore al Centro (+126%) e al Sud (+100%). Nel triennio 2013 -2016 l'incremento della crisi si è avuto più al Nord con un +4,6% rispetto allo 0,5% del Mezzogiorno. Il diffondersi della povertà assoluta è determinato da diverse ragioni, ma in primo luogo trova tra le sue principali cause le difficoltà occupazionali, visto che tra le persone in cerca di lavoro coloro che sono in povertà assoluta sono pari al 23,2%, con un aumento del 3,4 % negli ultimi due anni. Il fenomeno ha una relazione inversa con l'età che penalizza le classi più giovani, infatti nel 2016 era del 12,5% tra i minori (+2,6% negli ultimi tre anni), del 10% tra i millennials (+1,3%), del 7,3% tra i baby boomers, del 3,8% tra gli anziani (-1,3%). La povertà assoluta ha l'incidenza più elevata tra le famiglie con tre o più figli minori (il 26,8%, +8,5%). I dati mostrano un altro trend il cui potenziale sviluppo può avere gravi implicazioni nel futuro: l'etnicizzazione della povertà assoluta. Nel 2016 il 25,7% delle famiglie straniere è in condizioni di povertà assoluta contro il 4,4% delle famiglie italiane, mentre nel 2013 erano rispettivamente il 23,8% e il 5,1%.
Un elemento importante che sottolinea il Rapporto, sul quale riflettere in maniera particolare, è questo sentimento di rancore diffuso nella nostra società. La ripresa economica non si è tradotta in una ridistribuzione del dividendo sociale e si registra un blocco della mobilità sociale. L'87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare, l'83,5% del ceto medio e il 71,4% del ceto benestante, pensa sia difficile salire nella scala sociale. Allo stesso tempo, il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti crede sia facile scendere a livelli più bassi della scala sociale.
Per quanto riguarda l'assetto demografico il Censis parla di un vero e proprio “rimpicciolimento” del Paese. Per il secondo anno consecutivo, la popolazione è diminuita (nel 2016 di 76.106 persone), il tasso di natalità ha segnato un nuovo minimo storico fermandosi a 7,8 per 1.000 residenti e si è ridotta anche la compensazione assicurata dalla maggiore fertilità delle donne straniere. Cala anche il numero dei giovani, la fascia di popolazione compresa tra 0-34 anni nel 1991 rappresentava il 47,1% della popolazione, nel 2017 è scesa al 34,3%. Il rischio è, quindi, che non venga assicurato il ricambio generazionale. Attualmente gli over 64 costituiscono il 22,3% della popolazione e per il 2032 si prevede che tale percentuale raggiungerà il 28,2%.
Quale futuro allora in un Paese che fa sempre meno figli, in cui i giovani scarseggiano rispetto a una popolazione che invecchia e con carenza di capitale umano qualificato? In Italia il numero di laureati è decisamente inferiore rispetto alla media europea: il 14,7% della popolazione è in possesso della laurea. È anche vero però che se da un lato la quota di laureati è troppo bassa, dall'altro il mercato del lavoro non riesce ad assorbirne a sufficienza. Nel 2016 solo il 12,5% delle assunzioni previste dalle imprese riguardava laureati. Gli stipendi dei laureati rimangono bassi (in media la retribuzione mensile netta dei laureati magistrali biennali a cinque anni dalla laurea è di 1.344 euro in Italia, all'estero di 2.202 euro), con un differenziale retributivo esiguo rispetto a chi si ferma al diploma (+14%).
L'incidenza di laureati tra gli stranieri non comunitari scende addirittura all'11,8%, anche in questo caso ben al di sotto della media europea. L'Italia, infatti, attrae soprattutto giovani migranti scarsamente scolarizzati. Il 90% degli stranieri non comunitari che svolgono un lavoro dipendente fa l'operaio (rispetto al 41% degli italiani) e l'8,9% l'impiegato (rispetto al 48% degli italiani). È marcata anche una profonda sfiducia nella politica e nelle istituzioni: l'84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici.
Per quanto riguarda il nostro sistema di welfare, il Rapporto Censis evidenzia che, in generale in questi anni di crisi economica, il sistema ha retto bene, nonostante i tagli dei finanziamenti pubblici che hanno fiaccato le risorse dei Comuni, primi attori nella gestione dei servizi sociali sul territorio. Il problema maggiore è stato quello di far coesistere sostenibilità finanziaria ed equità sociale, con le poche risorse a disposizione. Il sistema ha retto grazie all'intervento delle famiglie che hanno supplito all'inefficienza dei servizi dovuti alla deresponsabilizzazione finanziaria e operativa dello Stato.
Sul versante della salute il Censis ha registrato una maggior consapevolezza negli italiani dell'importanza della prevenzione e dell'adottare dei buoni stili di vita per migliorare la propria salute, il 40 % degli italiani pensa, infatti, che vivere in buona salute dipende molto spesso dagli stili di vita che si adottano. Si vanno diffondendo buone prassi che hanno portato, per esempio, alla riduzione del numero di fumatori, scesi nel periodo 2006-2016 dal 22,7% al 19,8%, o dei sedentari assoluti scesi dal 41,1% al 39,2%. Tuttavia c'è ancora da lavorare in tal senso in quanto i consumatori di alcolici fuori pasto sono aumentati dal 26,1% al 29,2% e il numero di obesi è aumentato dal 10,2% al 10,4%. Inoltre si è sviluppato in questi anni una preoccupante cura della propria persona “fai da te” attraverso un'informazione basata sulla rete web o sull'utilizzo di App, senza un supporto esperto di medici specialisti. In particolare il 16% degli italiani maggiorenni dichiara di avere problemi di intolleranza alimentare.
Nell'ambito della prevenzione sanitaria si registrano importanti passi avanti, infatti, nel periodo 2005-2015 la quota di donne di 25-69 anni che hanno fatto il pap test è passata dal 64,9% all'84%, la quota di donne di 45 anni e oltre che hanno fatto la mammografia è salita dal 58,6% all'86,4% ed è cresciuta dal 34,3% al 49,1% anche quella delle persone tra 50 e 74 anni che hanno fatto prevenzione per il tumore al colon con l'esame del sangue occulto. In tema di vaccinazione, invece, si segnala in questi anni un calo delle coperture vaccinali: tra gli adulti la copertura antinfluenzale passa dal 19,6% del 2009-2010 al 15,1% del 2016-2017, tra i bambini l'antipolio passa dal 96,6% del 2000 al 93,3% del 2016, quella per l'epatite B scende dal 94,1% al 93%. Questo dato negativo è stato frutto di campagne no vax in varie parti del Paese che hanno indotto il Governo ad approvare la legge 119 del 31 luglio 2017, con la proposta di un programma vaccinale più ampio per tutte le età della vita.
La spesa sanitaria privata delle famiglie è in continua crescita, attestandosi nel 2016 a 33,9 miliardi di euro, registrando un +1,9% rispetto al 2012. La spesa sanitaria pubblica è passata nel periodo 2012 –2016 da 110 miliardi a 112,18 miliardi ma in termini pro-capite si è ridotta del 4,1%, pari al 6,7% del PIL, che posiziona l'Italia al 10° posto in Europa, preceduta da Germania (9,4%), Svezia (9,2%), Danimarca (8,7%) e Francia (8,7%). In questo periodo una buona fetta della copertura finanziaria del fabbisogno sanitario pubblico è stata addebitata alla spesa privata dei cittadini. Così il costo del riordino dei bilanci regionali ha avuto ricadute negative sulla qualità e sulle erogazioni delle prestazioni in termini di lunghezza delle liste di attesa. Nel periodo 2014-2017 sono aumentati i tempi di attesa e si rilevano rispetto al 2014 +60 giorni per una mammografia (attesa media 112 giorni), +8 giorni per visite cardiologiche (attesa media 67 giorni), +6 giorni per una colonscopia (93 giorni in media) e stesso incremento per una risonanza magnetica (50 giorni di attesa in media). Un'altra problematica riscontrata è la difficoltà di accesso alle prestazioni pubbliche, che ha costretto il 62,5% degli italiani a rivolgersi al settore privato per avere una prestazione sanitaria. I cittadini hanno una percezione della qualità del sistema sanitario pubblico molto diversificata a seconda del territorio, con una soddisfazione che è evidente al Nord dove si registra un 80,5% e peggiora scendendo, nel Centro è pari al 60% e al Sud al 46,6%.
Il Rapporto si sofferma sul tema della non autosufficienza, fenomeno ormai massificato a causa del crescente invecchiamento della popolazione e della mancanza di efficaci aiuti pubblici nell'assistenza domiciliare e residenziale. Nel 2016 le persone non autosufficienti erano 3.378.000 pari al 18% della popolazione anziana, con quote variabili tra il 7% nel Sud, il 5,8% al Centro, il 5,5% al Nord-Est e il 4,7% al Nord-Ovest. L'80,8% ha oltre 65 anni di età e pertanto il 20,2% della popolazione anziana è non autosufficiente.
Dal 2005 al 2016 c'è stato un aumento di 649 mila non autosufficienti, con questo trend si stima che nel 2031 le persone non autosufficienti saranno 4.666.000 e l'area più a rischio sarà il meridione, con un incremento previsto del 10,5%, seguito dal Nord Est con un +8,46%, dal Centro con un +7,6% e il Nord Ovest con + 5,5%. I dati sull'assistenza domiciliare integrata certificano una rete ancora insufficiente e lenta nella risposta assistenziale e la residenzialità continua a essere insufficiente e mal gestita con una offerta di 273.000 posti letto, dove il servizio spesso è mediocre. La non autosufficienza sta impoverendo sempre più le famiglie che nell'ultimo anno hanno sperimentato maggiori difficoltà nel sostenere le spese sanitarie. In media una famiglia con un non autosufficiente ha una spesa sanitaria privata media che è pari a più del doppio di quella di un'altra famiglia senza non autosufficienti in casa. Il 51% delle famiglie con non autosufficienti ha difficoltà ad acquistare prestazioni assistenziali rispetto al 31,5% del resto delle famiglie.
Infine, un riferimento a ciò che il Censis definisce il rischio del mancato consenso sociale sull'età pensionabile. Nell'ultimo decennio il sistema pensionistico italiano è stato sottoposto a vari interventi strutturali, passando da roccaforte della sicurezza sociale ad un cantiere aperto pronto ad accettare le modifiche imposte dal Legislatore. Di fatto l'Italia è in Europa il Paese con l'età di accesso alla pensione più alta, preceduto solo dalla Grecia. Per gli uomini 66 anni e 7 mesi nel settore pubblico, nel privato e per il lavoro autonomo. Per le donne 66 anni e 7 mesi nel settore pubblico, 65 anni e 7 mesi nel privato e 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome. In media negli altri Paesi europei si va in pensione a 64 anni e 4 mesi per gli uomini e a 63 anni e 4 mesi per le donne. E il gap è destinato ad aumentare nel prossimo futuro. In media, l'età alla quale gli italiani pensano che andranno in pensione è 69 anni, ma l'età alla quale vorrebbero andarci è 62 anni. Si sviluppa nei cittadini un certo grado di incertezza e diffidenza nei confronti del sistema previdenziale con la percezione che da qui ai prossimi anni la pensione sarà inadeguata alle reali esigenze di vita. Nel periodo 2007-2017 diminuisce dal 47,8% al 40,8% la quota di cittadini convinti che il loro reddito in vecchiaia sarà adeguato, passa dal 23,4% al 31,2% la percentuale di chi è convinto che percepirà un reddito appena sufficiente a sopravvivere, sale dal 18% al 21,7% la quota che ritiene che avrà un reddito insufficiente.

11/12/2017

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