Alzheimer, l’impatto economico e sociale della malattia
Una ricerca del Censis sull’impatto economico e sociale dell’Alzheimer sui malati e sui loro caregiver
Il Censis ha presentato la ricerca sull’impatto economico e sociale dell’Alzheimer su malati e sui loro caregiver.
Le demenze nel nostro Paese colpiscono circa 1.200.000 persone (di cui il 50-60% sono malati di Alzheimer, circa 600.000 persone) e circa 900.000 con disturbo neuro-cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment).
Sono circa 4 milioni, inoltre, le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei pazienti.
La ricerca è stata sviluppata insieme a AIMA (Associazione Italiana Malati di Alzheimer) e ha visto la partecipazione di un campione di interviste telefoniche di 360 caregiver distribuiti sul territorio nazionale. Una importante novità di questo studio è la realizzazione di una ulteriore indagine su un campione di persone con una diagnosi di disturbo cognitivo lieve (Mci).
Sono stati poi comparati i dati raccolti tra maggio e ottobre 2023 con quelli delle precedenti ricerche (2015-2006-1999).
I DATI DELLA RICERCA
I pazienti tendenzialmente sono più giovani e di più recente diagnosi, un'ampia quota dei quali sono persone occupate che hanno sperimentato ripercussioni sul lavoro.
Lo stesso è accaduto ai caregiver, che sono in prevalenza tra i 46 ed i 60 anni e nel 55,3% dei casi lavorano.
Rimane la forte connotazione di genere della malattia, con il 62,2% di pazienti donna e oltre il 70% di caregiver di sesso femminile.
Il ricorso alla badante coinvolge il 41,1% circa delle famiglie, in linea con le precedenti rilevazioni, ma il loro apporto tendenzialmente minore è segnalato dal fatto che si inverte la proporzione tra badanti conviventi e non, con una quota prevalente di non conviventi (28,3% contro il 14,6% del 2015). Nei fatti questo aiuto, che rimane poco professionalizzato e viene garantito, in larghissima prevalenza, da badanti donne e straniere, reclutate attraverso canali informali, appare più ridotto e meno strutturato, ma più caro, dal momento che continua ad impattare in modo significativo sulla spesa delle famiglie (il costo per questo tipo di assistenza aumenta il proprio peso nel tempo e rappresenta il 75% dei 22.500 euro di costi diretti annuali attribuibili ad un malato di Alzheimer (era il 60% nel 2015).
Minoritaria la quota di intervistati che forniscono un giudizio positivo sull'attuale situazione dell'assistenza pubblica al proprio familiare (36,2%). Nella percezione della maggioranza relativa dei caregiver (42,3%), negli ultimi anni e, in particolare, dopo la pandemia, non si è riscontrata nessuna variazione significativa nell'offerta di servizi per le persone con Alzheimer e anzi per un 29,8% la situazione è sostanzialmente peggiorata.
Poco appare mutato rispetto alla condizione di chi convive con l'Alzheimer e a quel modello assistenziale di fatto basato su un'ampia delega alle famiglie.
Lo conferma anche la nuova stima dei costi economici e sociali della malattia, che mostra un aumento complessivo del costo medio annuo per paziente, che ha raggiunto i 72.000 euro, con un incremento in termini reali del 15% rispetto al 2015 della quota di costi diretti a carico delle famiglie.
IL DIVARIO TRA NORD E SUD
Più della metà dei pazienti (il 53,3% sul totale e quasi il 60% al Sud) non ha mai effettuato una visita presso un Cdcd (Centro per i disturbi cognitivi e le demenze) e solo il 37,7% dei pazienti è seguito da un Cdcd (era il 56,6% a essere seguito da un centro Uva nel 2015 e il 66,8% del 2006). Si registra un divario anche tra i pazienti presi in carico dal Cdcd: sono il 48,2% tra coloro che risiedono al Nord, contro un terzo circa di quelli che vivono al Centro ed al Sud.
Negli anni i tempi per diagnosticare la malattia sono variati di poco, ma risultano ancora aumentati, passando da una media di 1,8 anni nel 2015 a 2,0 anni nel 2023. Le persone con un disturbo lieve (Mci) ripongono nei nuovi farmaci la loro speranza. Sono pazienti abbastanza giovani (l'età media è di 71 anni, il 45,1% del campione ha meno di 70 anni). In questo caso non si riscontra una prevalenza femminile, come nell'Alzheimer.
Il primo referente a cui si sono rivolti è il medico di medicina generale, seguito dallo specialista neurologo pubblico, mentre solo il 6,9% ha consultato direttamente un Cdcd.
Tuttavia, la stragrande maggioranza indica nel Cdcd il soggetto che ha effettuato la diagnosi. Il rapporto con i servizi assistenziali è praticamente inesistente e il supporto psicologico fornito dal Servizio sanitario nazionale appare largamente insufficiente per molti tra gli intervistati. Eppure, il 68,5% denuncia la presenza di difficoltà nella propria quotidianità, quasi 2 pazienti su 3 indicano di aver bisogno di una qualche forma di sostegno, ancora garantita dalla famiglia.
Risulta più positiva la valutazione nei confronti dei servizi sanitari che attualmente seguono gli intervistati, dal momento che il 51,2% dei pazienti li giudica molto o abbastanza soddisfacenti.
Al 54,4% è stato consigliato un percorso basato su stile di vita e terapie non farmacologiche, mentre il 41,2% è entrato a far parte di un protocollo sperimentale e il 38,2% assume farmaci per il trattamento dell'Mci.
Il 90,1% degli intervistati afferma che è la paura di peggiorare a dominare la propria esistenza, e, se il 38,9% dice di impegnarsi per affrontare il futuro, il 34,0% afferma che vorrebbe pensarci ma non ci riesce.
In relazione a ciò che è ritenuto più utile per affrontare i loro problemi, gli intervistati rispondono prima di tutto terapie farmacologiche efficaci (88,2%).